Il mio rapporto con la prima Playstation fu breve ma intenso. Tra le mura domestiche ho sempre giocato sui computer e la mia fame di arcade l’avevo già abbondantemente placata durante il periodo dei cabinati. A casa preferivo perdermi in giochi che avessero una discreta componente strategica, manageriale, simulativa o semplicemente narrativa. Qualcuno potrebbe oggi replicare, sbandierando una serie di pietre miliari che avessero tali caratteristiche anche sulla prima ammiraglia Sony.
Ma all’epoca la situazione era ben diversa, le informazioni si misuravano con il contagocce e le poche riviste specializzate, almeno in Italia, gridavano troppo spesso ed affrettatamente al capolavoro. Cosa che, per uno squattrinato adolescente come il sottoscritto, complicava ulteriormente le cose quando si trattava di spendere dalle 100 alle 150 mila lire per un gioco. Questo almeno durante i primi anni del ciclo vita di questa leggendaria console, prima che arrivassero titoli del calibro di Gran Turismo, Silent Hill, Metal Gear Solid e via dicendo. E i JRPG, beh, li avrei scoperti solo qualche anno più tardi.
Fu Tekken 2 a vendermi la console ed a risvegliarmi quella voglia di divertimento immediato, che mi portò all’acquisto di altri grandi classici come Wipeout, Ridge Racer e Destruction Derby 1/2. Entusiasmo che tuttavia si esauriva troppo presto rispetto alla spesa investita. Per questa ragione tornai in breve tempo ai miei amati X-Wing/Tie-Figher, F1GP 2, Eurofighter 2000, le avventure punta e clicca, ai giochi di Molyneux e gli strategici targati Westwood.
Molti mesi più tardi, ma forse era passato più di un anno, sfogliando una rivista locale dell’usato in cerca di qualche componente a buon mercato per il mio PC, venni catturato da un annuncio assai allettante nella sezione hi-tech che recitava più o meno così: “Vendesi giochi Playstation (e poi una sfilza di titoli nuovi di zecca n.d.r.) a 10.000 lire l’uno“. Un prezzo incredibilmente basso, considerando che all’epoca i soli CD “vergini” potevano arrivare a costare fino a 7/8.000 lire, poiché tassati per contrastare la nuova ondata di pirateria dovuta all’avvento dei primi masterizzatori.
Era chiaro che l’inserzionista di turno ne possedeva uno bello fiammante per svolgere la sua lucrosa, quanto poco legale, attività. Chiamai, almeno per chiedere spiegazioni e mentre componevo il numero da una cabina telefonica m’immaginai a casa a soffiare su quel denso strato di polvere depositato sulla console Sony. Per quella cifra ci potevo stare, ci potevo stare eccome. Senso morale? Nessuno, come la quasi totalità dei giocatori dell’epoca dinanzi ad una simile opportunità.
Al telefono mi rispose un ragazzo, probabilmente sulla ventina, con un accento ben diverso dal mio e ben lontano dalla mia regione. Un particolare che mi era sfuggito (poteva comunque vivere dalle mie parti) ma che in un dato periodo successivo mi tornò alla mente. La mia domanda fu diretta: “sono giochi masterizzati, giusto?“. L’interlocutore, dopo aver tentennato un po’, confermò il mio “dubbio”, precisando che era però necessario possedere una console opportunamente modificata. Cosa che avevo già fatto per poter giocare alle versioni giapponesi di Soul Calibur e International Superstar Soccer Pro, ribattezzato poi PES, che in terra nipponica si chiamava Winning Eleven.
Feci un primo ordine, acquistando più di un titolo alla volta e alcuni mesi dopo ne feci un altro. I giochi mi arrivarono tutti su CD-R TDK (non era ancora l’era delle torri Verbatim), nella comoda confezione trasparente e titolo scritto distrattamente a pennarello. Funzionavano, anche se sono convinto che, come molti affermavano all’epoca, abbiano contribuito a diminuire sensibilmente il ciclo vita del lettore della mia console.
Ma poco importava, sapete perché? Nonostante un prezzo così conveniente, dopo qualche settimana tornai nuovamente a giocare solo su PC, motivato anche dalla diffusione dei primi acceleratori grafici 3Dfx. Non mi misi più in contatto con quel giovane “venditore”, ma, come immaginerete, le nostre strade s’incontrarono una seconda volta. E non fu affatto piacevole.
Passarono diversi anni e un giorno qualunque di autunno inoltrato, rientrando a casa mi ritrovai davanti all’ingresso i miei genitori con un’espressione, come descriverla… pietrificata. Era la classica espressione di chi vuol comunicare “che hai combinato stavolta?“, ma con una leggera spruzzata di drammaticità che aggiungeva un ulteriore dettaglio: “mi sa che l’hai combinata bella grossa e adesso come la risolviamo?“.
Mio padre sventolava una missiva in mano, ma fu mia madre a parlare. Su quella lettera c’era scritto che dovevo recarmi tra due giorni in prefettura per ritirare un invito a presentarmi in tribunale. Ecco, da qui in avanti mi scuso con gli esperti del settore se utilizzerò termini inesatti o poco appropriati in ambito giuridico, forse storpiati dallo strampalato doppiaggio di molti legal movie. Lo faccio per facilitare le cose e, soprattutto, perché sono passati molti anni dall’accaduto.
Ma di cosa si trattava? Una denuncia, a me? E dovevo aspettare ben 48 ore prima di saperne il motivo. I miei genitori mi stavano già battezzando come autore di chissà quale efferato crimine, mentre i miei amici il giorno dopo, in linea con l’idea che “di ca**ate ne hai fatte ma non fino a questo punto“, mi consolavano dicendo che probabilmente dovevo presentarmi come testimone o qualcosa del genere.
Sarei stato utile alla società, magari diventavo pure un eroe. E invece no, niente di tutto questo. La sera prima di recarmi in prefettura, dopo aver ripercorso la mia vita a ritroso di qualche anno, mi si accese una lampadina. Ma stai a vedere che…
La mattina prima di uscire raccontai ai miei genitori dell’acquisto di qualche anno fa di alcuni CD copiati e di averli ricevuti per posta, suddivisi in due ordini diversi. I miei, che ci crediate o no, apparvero subito rincuorati. Io invece non ero così tanto positivo. Ottimista circa la mia ipotesi, questo sì, ma non che la cosa fosse così tanto da prendere alla leggera.
Nessuna sorpresa quindi quando aprii la lettera appena ritirata in prefettura, che diceva più o meno che avrei dovuto presentarmi davanti al tribunale della città X, capoluogo di una provincia diversa dalla mia, con l’accusa di acquisto di materiale contraffatto. Con buona pace dei miei genitori, che a questo punto, non oso pensare cosa avessero immaginato.
L’avvocato che mi avevano procurato, invece, la pensava come me. Difficile uscirne illesi se avevano delle prove concrete e la sua idea era quella di alleggerire il carico, declassando la pena a “incauto acquisto”. In altre parole, ammettere di aver acquistato un bene, illecito a mia insaputa sì, ma con la colpa di non averne accertato la provenienza. Il punto era che, come cercavo di spiegare all’avvocato, di ordini ne avevo fatti non uno, bensì due.
Ma questo, secondo lui, non significava granché. Non potei non replicare, spiegando che mi sono arrivati dei CD quasi completamente dorati con la scritta a pennarello. “Ma sì“, insisteva soave l’avvocato roteando una mano e ammirando il soffitto, “in fondo, erano ben confezionati, potevano essere una versione promozionale eccetera, eccetera, eccetera“. Macché ben confezionati, c’era pure scritto TDK su quei supporti. “Ma sì, ma sì, ma sì….“, proseguiva.
Eccolo lì, pensai, un “Grande Vecchio” che congeda un dialogo intergenerazionale con il classico “che ne vuoi che ne sappiamo noi delle vostre diavolerie“. Era tutt’altro che convincente, eppure io alla fine mi lasciai convincere. Mi lasciai cullare dall’immagine di una decadente aula di tribunale, colma di ragnatele e persone di età oramai avanzata. Nell’aria un leggero odore di naftalina e i sostenitori dell’accusa sembravano essere arrivati col pulmino di una casa di riposo.
Il giudice, un ultrasessantenne in sovrappeso, con la voce consumata dal pacchetto di Merit quotidiano ascoltava annoiato l’ennesima ragazzata di una generazione altrettanto annoiata, che si copiava i giochi così come loro, in gioventù, si copiavano le cassette di Lucio Battisti. E tutto si sarebbe concluso con un nulla di fatto, ma solo per questa volta.
Ciò che rese più interessante quell’incontro con l’avvocato fu però la completa lettura degli atti giudiziari, che avevano dell’incredibile. In sostanza, il ragazzo che avevo contattato, appena maggiorenne, era sì di un’altra regione, ma aveva riempito di annunci i gazzettini locali dell’usato di molte città del nostro Paese. Forse per non dare troppo nell’occhio, dalla sua cameretta aveva creato una rete di distribuzione di giochi masterizzati a livello nazionale.
Non ricordo bene la causa scatenante dell’intervento della finanza, ma il ragazzo ricevette un’incursione notturna e la confisca di un enorme quantità di CD-R, una montagna di pacchetti postali e più di una postazione PC, ognuna equipaggiata di masterizzatore. Una vera e propria catena di montaggio, all’insaputa dei genitori, ignari, almeno loro, delle sue diavolerie. Come sono arrivati ad acciuffare i suoi clienti come il sottoscritto?
Semplice, quel genio del male aveva salvato nella cartella “Documenti” di uno dei suoi computer un file Excel con tutte le anagrafiche degli acquirenti, compresi gli ordini fatti e quelli da spedire. Adesso non restava che attendere il processo… (continua nella seconda parte)
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