Quella volta che mi processarono per Pirateria – Parte II

Il processo e la sentenza

Speciale di Gameplay Café Bot

Ma com’è andata poi a finire la storia del nostro lettore alle prese con la giustizia, in una causa per Pirateria? Nel caso vi foste persi la prima parte andate subito a recuperarla perché vi stiamo per raccontare la conclusione, col processo e la sentenza!

Passarono diversi mesi e finalmente, per così dire, venne il giorno del processo. Ci fu un altro incontro preparatorio pochi giorni prima con l’avvocato: per l’occasione portai con me alcuni dei CD-R acquistati e “ben confezionati”, ma lui non sembrò poi tanto interessato. Tra l’altro, nel giorno dell’udienza, lui avrebbe avuto un altro irrevocabile impegno e sarebbe arrivato un po’ in ritardo, ma era certo di arrivare in tempo per la mia performance. A dir la verità, io non ne ero poi così sicuro ma lui, con i suoi “ma sì, ma sì, ma sì“, mi convinse che non ci sarebbero stati problemi. Anzi no, non mi convinse affatto.

Questa è la storia di quanto accaduto al sottoscritto, senza perdersi in disquisizioni giuridiche o morali, ma lasciatemi descrivere le sensazioni di un ventenne in questa situazione durante quell’ora e mezzo di viaggio col padre verso l’aula di tribunale: non mi sentivo dalla parte della ragione, sia chiaro, né tantomeno una vittima. Semplicemente mi sembrava di pagare troppo per quanto compiuto, tutto qui. Non avrei neanche avuto problemi ad ammettere candidamente che, sì, avevo acquistato quattro o cinque giochi masterizzati se ci non fosse stato il rischio di una pena così severa: un risarcimento compreso tra le dieci e venti volte la cifra che avevo negato con il mio illecito. Dunque, facendo qualche calcolo, potevo rischiare un’ammenda di oltre otto milioni di lire. E un bello sfregio sulla mia fedina penale.

Non ero neanche stato colto in flagrante, poiché tutto era stato trovato ben documentato a centinaia e centinaia di chilometri nella cameretta di uno sconosciuto ex-bambino prodigio, che doveva aver avuto le pigne in testa per aver reso così plateale la sua attività. Almeno, pensavo, poteva dargli un’estensione .sys a quel maledetto file e metterlo in qualche cartella di qualche applicazione installata, o come .jpg in un archivio denominato “Vacanze in Molise” o in un floppy disk… oppure il buon vecchio e commestibile pezzo di carta. Pensando alla mia sorte, non riuscivo neanche a immaginare a cosa sarebbe andato incontro il mio fornitore di giochi e di disgrazie.

E va bene, farò il finto tonto…

Prima di entrare in tribunale, optammo per un caffè a due passi dall’edificio. Il viaggio in auto era stato piuttosto silenzioso, essendo io assorto nei miei pensieri, così ne approfittammo per alcune considerazioni finali prima di entrare in scena. Se da un lato eravamo concordi sul fatto di dover seguire le indicazioni dell’avvocato, io non riuscivo a togliermi dalla testa quella scritta TDK sui CD-R. “E va bene, farò il finto tonto e ribatterò sul fatto che non mi ero accorto di trovarmi davanti a CD non originali”… poi mi resi contro che era il caso di interrompere la discussione: una signora, caschetto biondo-tinto tra i cinquanta e i sessanta, che sorseggiava un caffè dietro mio padre, sembrava ascoltare con un certo interesse e mi resi conto che ingenuamente, poiché travolto dall’agitazione, stavo parlando un po’ troppo per essere in un luogo probabilmente molto frequentato da giudici e avvocati. Ma in fondo, che ne sapeva lei, di certe diavolerie?

L’aula era più affollata di quanto mi sarei aspettato: c’erano circa una quindicina di miei coetanei, tutti più o meno intimoriti, accompagnati dai loro legali, da parenti, partner o amici. Tra la fauna del luogo spiccava un avvocato ultratrentenne, che girava indiavolato da un tavolo all’altro con in mano arrotolato una copia di “Giochi per il mio Computer”. Mostrava un po’ a tutti gli annunci dell’usato che la rivista conteneva, accompagnando il gesto da esclamazioni quali “è pazzesco“, “non è possibile“, “e questi allora? Eh? E questi?“: erano comunissime inserzioni di titoli vecchi di almeno un anno, venduti singolarmente a trenta/quaranta mila lire. Lui sì che era molto lontano dalla realtà e dalla mia generazione, ma distribuiva la sua buona dose di intrattenimento.

Io non sapevo bene dove posizionarmi, dato che il mio avvocato ancora non era arrivato, e decisi di sedermi in fondo all’aula vicino a un ragazzo, pallido in volto, molto più del classico colore dello stereotipo nerd. Fissava il vuoto… “chissà quanti CD-R si è acquistato questo qua per essere in questo stato”, pensai. Poi una donna si affacciò alla porta dell’aula, chiamandolo per nome. Quel nome, che mi provocò più di un brivido. Si alzò e me lo vidi passare davanti, lui, il mio fantomatico distributore pirata, colui che aveva dato inizio a tutto questo. Gli avrei voluto dire tante cose; nelle ultime settimane avevo più volte fantasticato su quell’incontro e su di una mia ipotetica spavalda offensiva, perlomeno verbale. Ma in quel momento rimasi solamente impietrito e incredulo. Lo seguii con lo sguardo mentre si dirigeva verso la porta e, una volta uscito, non lo rividi mai più. Da lì in poi, iniziò una tragicomica escalation di situazioni, una più sconfortante dell’altra nei miei confronti, che lasciava poche speranze al mio eventuale imminente, patetico tentativo di difesa.

Il colpo di scena nell’aula di tribunale

Dopo circa mezz’ora entrarono i membri dell’accusa, se così posso chiamarli, ovvero alcuni esponenti della polizia postale che avevano seguito l’indagine. Niente pulmino, niente stampelle, tutti sulla trentina e, come vedremo dopo, ben preparati. Che sciocco, che illuso a pensarla diversamente. Ma la prima vera mazzata la ricevetti con l’ingresso del giudice, anch’esso non una persona anziana e rattrappita, bensì una donna distinta, sui cinquanta, coi capelli a caschetto biondo-tinto. Proprio lei, la signora che mi stava origliando al bar. Non sudavo freddo, no, mi si stavano formando proprio dei ghiaccioli sulla fronte.

Così il processo ebbe inizio, partendo dall’ascolto dei fatti contenuti nei documenti del capo di accusa; a prendere la parola, su invito del giudice, fu un tipo della polizia postale che, inizialmente, si mise a descrivere l’operazione messa in atto per intercettare l’illecita attività. Con sé aveva tutte le ricevute di tutte le spedizioni corrispondenti al compilato del famigerato file Excel. Poi iniziò a parlare della questione legata alla pirateria informatica, utilizzando termini e facendo considerazioni nerd che più nerd non si poteva. Cos’è che dovevo dire a queste persone per difendermi, che “erano ben confezionati“? Intanto il mio avvocato, non era ancora nei paraggi. Ero sempre meno disposto a salire su quello scranno a farmi fustigare. Anche l’avvocato indiavolato aveva riposto, sconsolato, la celebre rivista videoludica. Venne chiamato il primo imputato, un ragazzo, con alcuni anni più di me, che si avvicinò alla postazione con aria decisa e ottimista. Il motivo di quell’atteggiamento fu chiaro appena iniziò a parlare: dopo aver verificato che il suo primo e unico ordine conteneva CD masterizzati, ricontattò il venditore per chiedere il rimborso, una volta rispedito il pacco. E aveva con sé, a distanza di anni, la ricevuta di ritorno del pacco restituito. Le tensioni si allentarono fin da subito e la giudice chiese con aria distesa se si capiva bene che si trattasse di CD masterizzati. “Ma certo!“, rispose con spavalderia, “chiunque se ne poteva accorgere. Erano dei comuni CD vergini con la scritta a pennarello, di marca TDK“. Se lo ricordava pure lui.

Ci fu un discreto mormorio in aula, l’avvocato ex-indiavolato fece un lieve, quasi impercettibile, segno di dissenso al suo cliente come per dire: “Ok, è finita, non se ne esce”. L’imputato, una volta percepito di essere prossimo alla salvezza, parve quasi divertito a star lì a rispondere alle domande. Ho sempre odiato i primi della classe, non per invidia, né per la loro presunzione ma perché la maggior parte di essi non si accontentavano di eccellere con i proprio mezzi, no, volevano anche incrementare il gap con la plebaglia, cercando a ogni costo di metterla ulteriormente in difficoltà. Così come il nostro ex-compagno di sventura, che rispondeva baldanzoso alle domande che servivano solo e soltanto al suo ego, alle certezze che lui, sì, era un onesto cittadino, e allo stesso tempo ad affossare tutti noi, indirizzati a un destino ben diverso. Mentre lui si divertiva a fare il collaboratore di giustizia, mi sentii chiamare da un giovane con la toga da legale dicendomi che il mio avvocato aveva chiamato in segreteria (i cellulari non erano ancora così diffusi e io non ne possedevo uno), comunicando che non sarebbe arrivato in tempo. Era quindi stato mandato lui come difensore d’ufficio, per quel poco che c’era da difendere.

Coloro che hanno atteso di vedermi finalmente immolato come vittima sacrificale al Signore del copyright resteranno, però, in parte delusi. Perché la mia tragica confessione (che altro potevo fare a questo punto?) fu risparmiata da un colpo di scena, del tutto inatteso, molto simile al teatrale “deus ex machina”. Dopo la deposizione del primo imputato, l’accusa, non ricordo bene nella persona di chi, propose un patteggiamento per i restanti imputati di una multa pari a un milione delle vecchie lire e finita lì. L’avvocato, quello della rivista, dette una pacca sulla spalla del ragazzo accanto a lui e lo invitò ad alzarsi e accettare. Accettammo tutti, uno dopo l’altro. Uscimmo dall’aula una trentina di minuti dopo più sollevati, poiché per come si erano messe le cose, non poteva finire meglio di così. Specialmente per me che avevo già fatto gli straordinari al bar davanti al tribunale. Sul corridoio prima dell’uscita mi venne incontro di corsa, tutto trafelato, il mio avvocato, a cui raccontai cosa si era perso. Ovviamente anche per lui, il patteggiamento andava assolutamente accettato, dato che era più o meno come pagare una multa. Ma io non ne ero così certo: “Tutto qui? Nient’altro?”, gli chiesi dubbioso per l’ennesima volta. Ma sì, ma sì, ma sì…

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