Resident Evil: tra cinema e videogioco

Sei film in live action e tre in computer grafica, questo il bottino cinematografico dello storico brand di Capcom, che come previsto, non è distinto per qualità eccelse

WatchPlay di Gabriele Barducci

Il prossimo 25 gennaio arriverà in tutto il globo quello che sembra essere il glorioso remake ad opera di Capcom di Resident Evil 2. Da molti appassionati considerato, a buona ragione, il capitolo più bello, capace di coniugare tensione, narrazione sopraffina, ambientazione e giusta dose di horror.

Certo, parlare oggi di Resident Evil equivale a rievocare una saga horror che si trascina negli anni, tra successi, flop e critiche, dall’apparizione del primo capitolo uscito nel lontano 1996, indicando più volte la via per tutti gli altri competitor del genere.
In questa storia decennale e dal forte successo commerciale era impossibile non aspettarsi una trasposizione cinematografica che potesse portare in sala tutti i fan della serie. Chiaramente non tutte le aspettative della Screen Gems, una divisione cinematografica della Sony, sono state centrate e nonostante un buon inizio, improvvisamente la saga cinematografica ha preso una deriva narrativa folle, non trovando più il consenso della critica, ma paradossalmente c’è sempre stata una fetta importante di spettatori che ha premiato le avventure di Alice (Milla Jovovich) nel mondo post apocalittico invaso da zombie e armi biorganiche.

Per una maggiore comprensione del rapporto narrativo tra videogioco e film, prenderemo in considerazione soltanto i capitoli canonici della serie, omettendo tutti gli spin-off o relative riletture in termini di meccaniche di gameplay attuate in capitoli isolati.
Come dicevamo, era il 1996 e Resident Evil, anzi, BioHazard si affacciava sul mercato globale, imponendosi subito come grande successo di critica e pubblico. Tale successo raddoppiò all’uscita di Resident Evil 2 ed è proseguito con Resident Evil 3. Tre capitoli tra il 1996 e il 1999 che oltre a smuovere un numero incredibile di fan, aiutò il lancio della PlayStation nel mondo e confermò le abilità di Shinji Mikami come vero e proprio autore, rivitalizzando e impostando nuove regole per il genere dei survival horror.

resident evil cinema videogioco

Visto il grande successo e una buona impostazione narrativa fino a quel momento, nel 2000 cominciarono i lavori per portare al cinema il nome di Resident Evil e proprio questo vide luce nel 2002, con la regia di Paul W.S. Anderson e, attingendo sempre dal materiale originale e in questo caso dal primo capitolo (per quanto riguarda villa e laboratorio segreto), l’intento degli sceneggiatori è quello di inserire un elemento inedito, aiutando notevolmente la comprensione della trama come la stessa narrazione e anche per aumentare il fattore di immedesimazione per lo spettatore con il classico dell’archetipo narrativo, ovvero la ragazza smemorata che minuto dopo minuto dovrà ritrovare la memoria per mettere assieme tutti i tasselli del puzzle.

A questo fa da contorno il classico incidente batteriologico nel laboratorio segreto della Umbrella e relativa squadra speciale che deve accertarsi della condizione di tutti i dipendenti rimasti intrappolati nella quarantena.

Milla Jovovich, che poi diverrà moglie di Paul W.S. Anderson dopo questo primo film, è una protagonista credibile e per quanto la deriva narrativa della saga è stata terribile, il primo Resident Evil è senza ombra di dubbio sia il migliore di tutta la saga, che un ottimo film action horror.
La trama viene rivista il giusto, plasmandola alle necessità cinematografiche e quindi risultando sicuramente più accattivante e gli stessi addetti ai lavori avevano preso seriamente il proprio ruolo all’interno del progetto, basti pensare l’ingaggio di compositori di successo come Marco Beltrami alla colonna sonora, assieme a personalità come Marilyn Manson e a conti fatti, quella colonna sonora che alterna suoni infantili alla violenza della chitarra heavy metal è qualcosa di prezioso in quel primo film.

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Il buon successo di pubblico e critica mise subito in cantiere un sequel, che perde Paul W.S. Anderson alla regia, che rimane comunque sceneggiatore. Due anni dopo, nel 2004 arriva Resident Evil: Apocalypse per la regia di Alexander Witt. La trama riprende proprio dalla fine del primo capitolo, seguendo sempre più le avventure di Alice e dei segreti del suo passato, mentre la storia comincia ad attingere a piene mani da ciò che era stato narrato dalla controparte videoludica. Entrano in scena dunque personaggi come Jill Valentine, Carlos Oliveira e nemici come il Licker o il famigerato Nemesis, tutti inseriti con un minimo di background atto a giustificarne la loro presenza. Il film cambia marcia, diventano più action e meno horror, mantenendo comunque una buona dose di intrattenimento, cominciando a perdere la critica, mentre il box office risulterà sempre sufficientemente generoso.

Nel 2007 con l’uscita di Resident Evil: Extinction avviene uno stacco netto dalla fonte videoludica, con Alice sempre più addentrata in un contesto post apocalittico, vendicatrice solitaria contro la Umbrella e Albert Wesker. Il mondo ormai sembra sempre più una landa desolata – espediente che creerà non pochi problemi per i sequel in termini di ambientazione. Altro problema sarà la necessità di togliere di mezzo alcuni vecchi personaggi cercando di aggiungerne di altri forzatamente, quindi ecco arrivare senza una vera e propria introduzione il personaggio di Claire Redfield. Questo sarà soltanto uno dei primi segni di un valore narrativo che si perderà definitivamente nei capitoli successivi. Anche qui Paul W.S. Anderson rimane alla sceneggiatura mentre la regia è di Russell Mulcahy. Anche qui, la critica ha abbandonato le mezze parole per massacrarlo senza pietà, mentre paradossalmente, in termini economici, questo è stato il capitolo più redditizio della prima trilogia, ma parleremo in un secondo momento di risultati al box office.

Con l’arrivo del rivoluzionario Resident Evil 4 nel 2005, l’ultimo diretto da Shinji Mikami e acclamato da tutta la critica mondiale come un vero e proprio capolavoro, capace di rivedere nuovamente il modo di fare TPS, abbandonando nello stesso tempo quell’atmosfera horror che aveva contraddistinto la saga fino a quel momento.  Il 2009 segna l’arrivo di Resident Evil 5, primo capitolo senza Mikami, una defezione che si fece sentire.  Nonostante una modalità cooperativa davvero intrigante, il gioco era un semplice action muscolare, con l’introduzione della BSAA (Bioterrorism Security Assessment Alliance) e la necessità di rivoluzionare tutto quello che conoscevamo in Resident Evil, quindi niente più zombie, bensì ogni capitolo avrebbe avuto una particolare tipologia di armi biorganiche.

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Questa deriva action, con promessa non mantenuta di tornare alle atmosfere dei primi capitoli, partorì Resident Evil 6. Diciamo che fino al primo capitolo della prima campagna, quella di Leon Kennedy, in parte ci abbiamo creduto tutti a un ritorno alle origini, ma poche azioni più tardi, ci catapultano in quello considerato uno dei capitoli peggiori, ormai testimone di un marchio che si era discostato troppo dalle sue origini, assumendo adesso un’identità non molto conforme e quindi, fastidiosa agli occhi dei videogiocatori.

In questo contesto di “mi piace/non mi piace” è simpatico notare come proprio Resident Evil 5 e 6 siano stati, in termini di vendite, i capitoli che hanno piazzato più copie in tutto il mondo e quindi incoronando i due titoli come veri e propri successi per Capcom.

Dopo queste uscite, Paul W.S. Anderson decide di tornare alla saga cinematografica, annunciando con Resident Evil: Afterlife (2010) l’inizio di una seconda trilogia. Non un reboot, ma bensì una prosecuzione diretta della storia, abbandonando ogni tipo di riferimento videoludico, se non per i personaggi citati, evolvendo i film a cinema di puro intrattenimento muscolare e pirotecnico. Questo comporta l’uso eccessivo della tecnica del 3D, elemento che si rivelerà utile solo al box office. Nonostante tutto, Afterlife si porta dietro una certa curiosità che non verrà certo ripagata in termini di qualità, anzi, verso la fine ci sarà uno scontro fratelli Redfield Albert Wesker che altro non si tratta di una versione live action shot to shot dello scontro che assistiamo tra Chris Redfield e Sheva contro Albert Wesker in Resident Evil 5. Il risultato è pessimo, esattamente quanto il film.

A questo punto pare piuttosto evidente che nonostante qualche incoraggiante trailer, anche questa seconda trilogia si presentava solo come macchina mangia soldi, e così è stato anche con i rispettivi due sequel: Resident Evil: Retribution, dove addirittura nella mischia più totale gettarono anche personaggi come Leon Kennedy o Ada Wong, per non parlare della Plagas totalmente fuori contesto, e infine Resident Evil: The Final Chapter che chiude – fortunatamente – questa seconda trilogia cinematografica mettendo fine a questa storia ufficialmente almeno fino al prossimo reboot già in cantiere per mano di James Wan (regista dei due Insidious e del recente Aquaman), che si dice interessato a un rilancio cinematografico partendo dalle atmosfere di Resident Evil 7. Dita incrociate.

A conclusione di questa storia, è saggio riprendere il discorso box office che si era lasciato in sospeso poche righe sopra: questa saga cinematografica, al netto della qualità disarmante di ogni capitolo che si aggiungeva alla lista, ha sempre avuto un buon alleato, il box office.
Ogni film arrivato al cinema, seppur in termini minori in confronto alle aspettative della major, è sempre stato un successo economico. Per sommi capi, i primi tre film sono costati nel complesso poco più di 120 milioni di dollari e hanno fruttato al botteghino una somma totale di circa 380 milioni. Meglio ancora è andata la seconda trilogia, che con un costo di produzione complessivo di circa 160 milioni di dollari, si è vista incassare globalmente circa 850 milioni di dollari. Insomma, preso nella sua complessità, questo franchise di sei film ha incassato nel globo più di 1 miliardo e 200 milioni di dollari. 
In questi casi, come in tanti altri, è il box office a comandare, in special modo quando si tratta di meri prodotti di intrattenimento.

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In casa Capcom comunque, non contenti delle percentuali di introiti a loro favore, si sono adoperati per dare vita anche a un’altra trilogia sotto forma di film d’animazione in computer grafica e questi film hanno il nome di Resident Evil: Degeneration (2008), Resident Evil: Damnation (2012) e Resident Evil: Vendetta (2017).
Con i primi due sicuramente più riusciti sia in termini narrativi che tecnici – in particolare Damnation ha un’interessante risvolto umano e morale in quello che è l’antieroe che accompagna Leon nella sua storia – l’ultimo capitolo, Vendetta, sembra una grande estensione di quella fiera degli eccessi che era Resident Evil 6, riproponendo la coppia Leon-Chris. Sicuramente una valida alternativa per seguire i nostri protagonisti principali in avventure degne di questo nome, senza mai toccare grandi vette di qualità.

Alla fine di questa lunga cavalcata e in virtù di future chiacchiere su altri titoli che portano la firma di Paul W.S. Anderson va detta una cosa molto importante: il regista è sempre stato un ottimo mestierante e come detto poco sopra, se c’è un capitolo da salvare in tutta la saga, quello è proprio il primo, genuino film horror che aveva tanto da dire. Poi cosa sia successo al regista per lasciarsi andare a questo eccesso di foga e tecnica spicciola, non è dato sapere – le malelingue vogliono che sia stato proprio il matrimonio con la Jovovich la causa della fine del momento d’oro del regista – ma ciò non toglie che l’eredità di Resident Evil al cinema, ad oggi, non è delle migliori e una di quelle che vorremmo scordare prima di subito dalla nostra memoria.

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