Saranno la concorrenza spietata, l’incremento dei canali di fruizione o il proliferare della forma transmediale, ma l’impressione è che in epoca odierna il settore dell’intrattenimento sia vittima più che in passato del più ingeneroso espediente per ampliare il bacino di utenza, ovvero la semplificazione. Prodotti confezionati per tutti, fruibili e di facile assimilazione, soprattutto quando si tratta di trasporre da fonti e autori più impegnativi. Ma non è sempre necessario andare a scomodare i grandi romanzieri russi, basti pensare ai recenti ritorni su pellicola di due capolavori di Stephen King, quali Pet Sematary e It (quantomeno la parte 2), per intuire la necessità di arrivare a chiunque a discapito del lavoro e degli intenti originali.
D’altronde il genere horror, che da sempre ha sofferto di un infimo rapporto qualità/quantità, rappresenta uno degli esempi più lampanti. Sono lontani i tempi dei grandi artigiani della paura come John Carpenter, caduto sotto i colpi del marketing e delle emozioni a buon mercato, dopo l’autoriale, bellissimo e visionario “Il signore del male” (titolo originale “Prince of darkness”). Un immeritato flop al botteghino che ha ridimensionato, per usare un eufemismo, la carriera del padre di “Halloween” e maestro dell’horror moderno.
Nella fattispecie, gli anni 2000 hanno costituito un decade basata sul deus ex machina, in cui la sospensione dell’incredulità veniva sostanzialmente risolta tramite un sogno o il parto dell’immaginazione di uno psicopatico o una prospettiva ribaltata e rivelata solo nel finale. Il decennio appena trascorso è stato invece il festival del jumpscare, “grazie” soprattutto a James Wan e alle sue serie cinematografiche Insidious, The Conjuring e Annabelle, un totale di una decina di film che ripropongono più o meno gli stessi temi e gli stessi improvvisi salti dalla poltrona, nonostante, va riconosciuto, un’estetica sempre di ottimo livello. Già, perché far paura è un’arte ed il jumpscare, facendo un paragone culinario, non è altro che un irresistibile junk food.
Ma proprio l’horror, attraverso un suo sottogenere, ci regala una gradita eccezione a questa tendenza, da tempo relegata ad un pubblico di nicchia. Finalmente dopo alcuni decenni di silenzio si torna a raccontare le paure radicate nelle antiche tradizioni popolari, attraverso numerose opere di pregevole fattura. A passo cadenzato, senza stratagemmi preconfezionati, il Folk Horror è in grado di risvegliare nello spettatore o lettore attento la parte più intima delle proprie paure interiori, scavando nell’inconscio collettivo.
Non esiste cultura popolare che non sia intrisa di credenze, superstizioni e rituali esoterici che hanno attraversato secoli, addirittura millenni. Questo tipo di patrimonio folcloristico trae principalmente origine dalla paura irrazionale che prende il sopravvento dinanzi ad eventi ignoti, influenzando ed incanalando la condotta di un’intera comunità. E, badate bene, non è un comportamento esclusivamente relegato a primitive tribù o società medievali schiacciate dall’oscurantismo religioso. Basti pensare a quanto è successo nell’ultimo anno e mezzo, dallo spauracchio per il contagio, passando per complottismi vari, arrivando oggi alla paura dei vaccini, tra angosce, ossessioni ed una crescente diffidenza nei confronti del prossimo.
L’insolito, si sa, rievoca timori legati al quotidiano, che ci riserva costanti e reali minacce, benché meno stimolanti e scenografiche di un evento soprannaturale. Perché, diciamolo, dalla paura si può trarre beneficio, piacere e divertimento, soprattutto quando essa adempie al compito di far evadere dalla monotona realtà, magari esorcizzando quelle paure diurne e razionali di cui una figura demoniaca non è altro che una metafora. D’altra pare, come dice Stephen King: “I veri mostri sono nel mondo reale”.
Per questo, ad una prima analisi, può essere riduttivo definire il Folk Horror come sottogenere, dato che esso tratta in modo specifico le paure e gli orrori legati ad oscuri segreti ancestrali di una popolazione o di un territorio isolati dalla vita moderna. Perché allora non includere anche il vampiro, il fantasma o il licantropo facenti parte del patrimonio gotico? Non vengono forse anch’essi dai racconti popolari? Sì, tuttavia, mentre nell’orrore puro, così come nel gotico, la paura o il senso di inquietudine serpeggiano essenzialmente attraverso la dicotomia logico/illogico, nel Folk Horror tali emozioni si sviluppano tramite ulteriori condizioni contrapposte: antico e moderno, città e campagna, rozzo e civile, laico e (fanatico) religioso. Come potete notare è ben diverso da un istruito professor Van Helsing che si presenta in una delle principali metropoli del mondo, armato e convinto di mezzi soprannaturali per sconfiggere un vampiro.
Una famiglia metropolitana in cerca di nuova vita in campagna, un risoluto investigatore chiamato a far luce su un caso insolito fuori da un contesto cittadino, uno studente che fa ritorno nel proprio paese agreste o una coppia in viaggio sperduta in un territorio extra-urbano rappresentano alcuni tipici protagonisti di una narrazione Folk Horror. A patto che dietro la pace e la tranquillità di un luogo fuori dal mondo moderno e una comunità accogliente e servizievole si nasconda un antico, terribile segreto. D’altra parte un simile paesaggio è sempre circondato da fitti boschi, paludi marcescenti, profondi laghi e caverne, per loro natura ideali catalizzatori della fervida immaginazione umana e non a caso custodi di leggende e storie di culti dimenticati.
Nel Folk Horror il mistero solitamente viene rivelato con parsimonia, attraverso piccoli dettagli, strani comportamenti isolati da parte degli abitanti del posto. Il senso di inquietudine nasce proprio da questo contrasto mentre la razionalità del protagonista viene smontata pezzo per pezzo fino all’epilogo dove solitamente deflagrano orrore e violenza di cui esso è vittima o testimone. Nel Folk Horror la tensione a lento rilascio tende a prevalere sulla paura improvvisa e calcolata per quasi tutta la durata della vicenda e, sebbene i jumpscare non siano del tutto banditi, spesso risultano inadatti per l’atmosfera rarefatta di questo tipo di narrazione.
Non ci sono serial killer, creature assetate di sangue o possessioni demoniache che giustificano una violenza indebita, poiché, nel caso più rappresentativo del genere, il male s’insinua negli intenti espiatori e purificatori del fondamentalismo religioso attraverso gli insegnamenti dei saggi della comunità o della tradizione tramandata oralmente. Atti che legittimano ogni tipo di violenza sulla vittima impura o prescelta per un sacrificio necessario per compiacere una divinità o Madre Natura in cambio di buon auspicio.
Dato l’ampio numero di culture e tradizioni, ci concentreremo esclusivamente sul Folk Horror legato al Vecchio Continente e alle sue credenze che traggono origine principalmente da popoli pagani del centro e nord Europa e costituiscono lo sfondo narrativo nella forma di streghe, bizzarre creature silvestri e, soprattutto, antiche religioni o divinità sopravvissute al proselitismo cristiano.
Le prime suggestioni pagane introdotte nei racconti dell’orrore iniziano a comparire verso la fine dell’Ottocento attraverso la prolifica penna del gallese Arthur Machen, maestro del terrore e del fantastico britannico. Lo scrittore ha impresso tutta la sua passione per le tradizioni popolari del suo Paese nel suo ciclo narrativo del “Piccolo Popolo” che comprende capolavori come il romanzo breve “Il Grande Dio Pan” e i racconti “Il Romanzo del Sigillo Nero”, “Il popolo bianco” e “La collina dei sogni”. Machen ipotizzava l’esistenza di un mondo parallelo, invisibile, dominato da forze occulte ed abitato da esseri antropomorfi ma dotati di forze soprannaturali. Essi possono essere contattati dagli uomini tramite speciali evocazioni per richiedere loro favori in cambio di adeguate ricompense. Secondo Machen, il Piccolo Popolo non è di natura benevola, nonostante la tradizione popolare, forse per timore, li abbia reinterpretati e narrati nel mondo delle fiabe come fate, folletti e spiritelli.
Immaginate quanto siano stati seminali i lavori dello scrittore gallese. Difatti Machen, come sapranno gli appassionati del genere, era lo scrittore preferito di Lovecraft, sua principale fonte d’ispirazione per ampliare le oscure leggende popolari ad una dimensione cosmica ed onirica. Ma leggendo racconti come “La ricorrenza” non si può negare una sensibile influenza del folklore nordeuropeo anche nella narrativa del Solitario di Providence. Altri contemporanei di Machen si sono dedicati successivamente all’orrore rurale, come Algernon Blackwood, con il suo personaggio letterario, il detective dell’occulto John Silence, spesso impegnato a fronteggiare congreghe di streghe e stregoni o strane creature nascoste nei boschi.
Cinquant’anni più tardi, la scrittrice Shirley Jackson, celebre per uno dei primi e più importanti racconti sulle case infestate, ovvero “L’incubo di Hill House”, scrisse nel 1948 un racconto che anticipò di qualche decennio l’esplosione del genere Folk Horror. “La Lotteria” narra il terrificante epilogo di una festa contadina, apparentemente pacifica e festosa, dedicata alla semina ed al raccolto.
Come già accennato in precedenza, a quanto pare le creature extra-dimensionali di Machen o le antiche divinità europee risultavano un pò troppo esigenti in cambio di favori nei confronti delle popolazioni agricole. Per ottenere terre feconde e clima favorevole per i raccolti, le cerimonie spesso richiedevano atti di violenza o spargimenti di sangue. Già i cronisti romani, a partire dal II secolo A.C., documentavano sacrifici umani e rituali orgiastici di propiziazione della semina o del raccolto ad opera delle popolazioni galliche e germaniche. Testimonianze che alcuni storici ritengono un po’ esagerate, verosimilmente per giustificare l’oppressione di popoli inclini ad atti barbarici (un po’ come l’odierna “missione per portare la democrazia”).
Nel corso dei secoli, specie in epoca medievale, le menzogne diffuse dalla persecuzione nei confronti di eretici, pagani e presunte streghe ad opera dell’Inquisizione non hanno fatto che alimentare questa probabile distorsione storica portando fino ai giorni nostri questo crudo immaginario. Questo è il tema principale dell’opera che negli anni ’70 è riconosciuta come il capostipite letterario della seconda new wave del Folk Horror, ovvero “La festa del raccolto” (titolo originale “The Harvest Home”).
Pubblicato nel 1973 e scritto da Thomas Tryon, romanziere ed attore Disney dalla dignitosa carriera, il libro racconta di una coppia con figlia adolescente che lascia New York per andare ad abitare in uno sperduto villaggio fondato secoli prima da immigrati provenienti dalla Cornovaglia. In piena tradizione Folk Horror, in un’atmosfera apparentemente tranquilla spunta qualche dettaglio inquietante legato alle tradizioni della terra originaria portate dagli antenati e tramandate per generazioni. Tipico esempio di opera in cui l’inquietudine viene rilasciata in piccole dosi ma dal finale straripante, la vicenda de “La festa del raccolto” ispirò probabilmente, tra gli altri, Stephen King per il suo celebre racconto “I figli del grano” portato su pellicola col titolo italiano “Grano rosso sangue”.
Verso la fine degli anni ’60 inziò il periodo più prolifico e pionieristico del Folk Horror, destinato a durare per tutto il decennio successivo. D’altra parte se, come detto all’inizio, questo genere scava nell’inconscio collettivo, quale periodo più efficace se non durante l’Era Psichedelica? Già nel 1967 esce nelle sale cinematografiche il cult britannico “The Wicker Man”, manifesto dell’orrore pagano che trae ispirazione da un rituale celtico descritto nel De Bello Gallico di Giulio Cesare.
Un poliziotto inglese si reca in una remota e rigogliosa isola delle Ebridi per indagare sulla scomparsa di una bambina. Fin dall’inizio il nostro protagonista vive il disagio legato agli strani comportamenti da parte degli isolani. Vi lascio immaginare il resto. Il film, che tra l’altro ha ricevuto un dimenticabile remake nel 2006, non ha mai avuto il doppiaggio in italiano e fa parte della cosiddetta “Unholy Trinity”, seminale trilogia cinematografica a tema Folk Horror.
Gli altri due titoli sono “Il Grande Inquisitore” (1968 – “The Witchfinder general”) con uno spietato Vincent Price e “La pelle di Satana” (1970 – “The Blood on Satan’s Claw”). A questa trilogia imprescindibile mi sentirei di aggiungere anche “Picnic at Hanging Rock” (1970) del grande Peter Weir, dalla trama insolita rispetto ai canoni sopra elencati: un gruppo di studentesse australiane si reca ai piedi di un complesso roccioso a qualche decina di chilometri da Melbourne per il loro picnic annuale. Ma durante l’esplorazione sulla vetta del monte, alcune ragazze scompaiono nel nulla mentre altre ridiscendono verso l’accampamento in stato di shock ed isteria. Un’atmosfera magica, onirica e terribile allo stesso tempo per un cult da riscoprire.
Chiaramente, nel periodo freak/psichedelico, non poteva di certo mancare un repertorio musicale dalle tetre atmosfere folk pagane e rituali. Sottogeneri come Psychedelic Folk, Pagan Folk o Occult Rock sono quelli che più rievocano questo tipo d’immaginario. Si parte con la colonna sonora composta da Paul Giovanni per “The Wicker Man”, un’opera che sposa in pieno le atmosfere del film.
Nel 1968, in piena era flower power il gruppo britannico Incredible String Band si distacca dalle contemporanee sonorità ed estetiche hippy per rievocare attraverso la musica le antiche tradizioni della Terra di Albione: composizioni in grado di trascendere il folk, attraverso suoni magici ed ipnotici, che rievocano riti lunari, creature fantastiche ed incantesimi di un tempo ormai dimenticato.
Nel 1971 esce “First Utterance” dei Comus, capolavoro del freak-folk acustico, dalle sonorità oscure e disturbanti. Se volete respirare atmosfere Folk Horror in musica, questa è l’opera di riferimento, essendo tutt’oggi insuperata. Occulti e sofisticati, i Black Widow sfornano nel 1970 il bellissimo folk-progressivo “Sacrifice”. Titoli come “Come to the sabbath”, “In the ancient days” e la stessa title-track lasciano poco spazio all’immaginazione.
Non si discostano molto dal genere i contemporanei Coven, anche se le sonorità risultano, a mio parere, un po’ troppo pacchiane. Infine Mark Fry, artista minore ma ho trovato il suo “Dreaming with Alice” (1972) un ottimo album ed in linea con le opere sopraelencate. Mi sentirei invece di escludere gli immensi Black Sabbath, dalle tematiche più spiccatamente horror e dalle pesanti sonorità che affondano le radici nel blues.
Terminata la sbornia lisergica, verso la fine degli anni ’70, arrivò la trasposizione cinematografica de “La festa del raccolto” e qualche anno più tardi di “Grano rosso sangue”, dopodiché il Folk Horror entrò in un lungo periodo di letargo per ricomparire in concomitanza della nascita dei primi footage/mockumentary a partire da fine ’90. Titoli come il seminale “Blair With Project” e “Troll Hunter” sono due ottimi esempi, ma anche l’italiano “Il misteri di Lovecraft”, che ipotizza un legame tra il pantheon lovecraftiano e le creature leggendarie del Delta del Po, narrate dalle leggende popolari delle Polesine, conosciute come “Racconti del Filò”.
Una curiosità: benché già molto in voga da oltre 50 anni, il termine “Folk Horror” venne coniato per la prima volta nel 2010 durante un documentario della BBC improntato sulla storia dell’horror.
Negli anni a seguire, parallelamente ai sopracitati jumpscare di Wan e soci, il mondo del cinema e della TV hanno iniziato a sfornare una vasta serie di titoli Folk Horror di grande interesse. “Midsommar” di Ari Aster è forse il titolo moderno più rappresentativo delle suggestioni pagane su pellicola e ricorda non poco l’indimenticabile “The Wicker Man“. Il fatto di essere narrato a tratti come una fiaba in cui l’orrore si sviluppa alla luce del sole rappresenta una singolarità che rende questo titolo oggetto di accese discussioni, destinato ad essere amato e odiato dai puristi dell’horror. Ma in termini strettamente Folk Horror si tratta di un’opera che colpisce nel segno. Aster, tra l’altro, si era già fatto conoscere per un altra opera dello stesso genere, ovvero il buon Hereditary.
In ambito televisivo si segnalano i recenti prodotti Netflix The Ritual e The VVitch, ma anche la bellissima prima stagione di True Detective su HBO racconta di un oscuro e violento sottobosco pagano nell’evangelica Louisiana. Per cavalcare l’onda del successo ritrovato di questo genere, i registi Kevin Kölsch e Dennis Widmyer introdussero alcuni elementi pagani e rituali nel loro nuovo riadattamento cinematografico di “Pet Sematary“. La stessa locandina fa pensare a un’opera Folk Horror ma non lo è affatto e l’intenzione, più che mai forzata, porta a un risultato patetico tanto quanto l’intera pellicola.
Dopo aver già introdotto l’italiano “Il Mistero di Lovecraft”, appare doveroso spendere ulteriori parole sul Folk Horror del nostro Paese, anche se non basterebbe un articolo intero. Tant’è che, per gli interessati, consiglio di documentarsi sul libro “Almanacco dell’orrore popolare. Folk Horror e immaginario italiano” di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni.
In ambito cinematografico il maestro indiscusso del genere è Pupi Avati, grazie soprattutto a “La casa dalle finestre che ridono” dove si narra della fama sinistra di un macabro affresco in una chiesa nelle campagne del ferrarese. Il grande regista bolognese firmerà numerose pellicole spaventose, tornando di recente all’horror rurale con l’ottimo “Signor Diavolo” del 2019.
Nel 2020 è uscito su Netflix “Curon“, serie thriller/horror basata sulle leggende legate al celebre campanile semisommerso da un lago artificiale localizzato sul territorio altoatesino. Le premesse lasciavano sperare in un prodotto dall’ottimo potenziale, ma alla fine ho deciso di non vedere la serie, scoraggiato dalla numerose recensioni negative a partire da quella scritta dal nostro Leonardo Alberto Moschetta. Speriamo in una miglior sorte per “A Classic Horror Story“, film sempre distribuito dalla popolare piattaforma di streaming, il cui trailer mostra un Folk Horror nostrano dalle forti venature slasher.
In ambito letterario, è indispensabile segnalare “Gotico Rurale“, raccolta di racconti di Eraldo Baldini, scrittore romagnolo. La narrativa dei suoi scritti è fortemente influenzata da elementi di antropologia culturale, di cui è autore di numerosi saggi. Consiglio anche “Come il lupo“, uno dei suoi romanzi più celebri che tratta di un oscuro segreto paesano ai piedi dell’Appennino Romagnolo.
Terminiamo questo lungo viaggio con i più celebri titoli videoludici. Non si può che partire da Silent Hill 1 e 2 (1999 e 2001), titoli di una serie imprescindibile per gli amanti del survival horror che pescano a piene mani dall’immaginario di David Lynch, Stephen King e H.P.Lovecraft. Silent Hill, un’apparente tranquilla cittadina di villeggiatura, un tempo centro spirituale di una tribù indiana, è oggi un posto maledetto, perennemente avvolto da una fitta nebbia e sede di un culto demoniaco praticato dagli attuali abitanti.
Su questo sfondo si svolgono le vicende di Harry Mason, protagonista del primo capitolo, recatosi nel luogo alla ricerca della propria figlia. Ma è il claustrofobico e onirico capitolo successivo ad essere il più amato della serie: un nuovo personaggio, una nuova storia auto-conclusiva e ulteriori dettagli sugli oscuri segreti di questa località, per un gioco che migliora il predecessore in tutti i suoi aspetti.
Con il quarto capitolo (2005) la serie Resident Evil, saga survival horror per eccellenza insieme alla precedente, cambia le carte in tavola, lasciandosi alle spalle zombie e visuale in seconda persona trasportando il giocatore in un mondo tridimensionale con inquadratura in terza persona ed un gameplay orientato allo shooter action. L’ambientazione è un paesino rurale spagnolo dove gli abitanti venerano un culto legato a degli strani parassiti. Il protagonista è il celebre Leon, ex-poliziotto sopravvissuto a Racoon City, inviato sul luogo come agente governativo per indagare su un misterioso rapimento. Il titolo ha i suoi anni ma appare ancora godibile specialmente in portabilità su Nintendo Switch. Appare tuttavia scontato un remake nello stile dei due precedenti capitoli.
La saga è tornata a trattare le tematiche del Folk Horror con il recente ottavo capitolo, ambientato per buona parte in un villaggio maledetto in cui regna la superstizione, antiche credenze e fanatismo religioso. Se con Bloodborne ci troviamo di fronte ad un perfetto connubio tra narrativa gotica e orrore cosmico lovecraftiano non possiamo tuttavia non notare alcuni aspetti legati al Folk Horror: i segreti di una civiltà sepolta, il culto della Chiesa della Cura e una cittadina maledetta connessa ad antiche divinità.
Dopo il successo di Outlast, survival horror ambientato all’interno di un ospedale psichiatrico sperduto nel Colorado, i Red Barrels tornano con un secondo capitolo ed una storia inedita ambientata in un cupo e inaccessibile villaggio nascosto tra i canyon dell’Arizona. I coniugi Blake e Lyn tentano di raggiungerlo in elicottero per indagare su un caso legato ad una donna morta incinta in un ospedale. Un incidente del velivolo nei pressi del luogo costringe la coppia a dividersi ed iniziare un infernale viaggio all’interno di un luogo abitato da una setta religiosa capeggiata dal perverso “Papa” Sullivan Knoth.
Purtroppo il titolo, seppur migliorato in termini tecnici ed estetici rispetto al precedente, risulta un vero passo falso in termini di gameplay. Il passaggio agli spazi aperti non sembra giovare alla creatività dei Red Barrels e ben presto si avverte la sensazione di trovarsi di fronte ad un noioso percorso unidirezionale. Un vero peccato perché l’atmosfera risultava davvero impeccabile.
Concludiamo con un recente titolo indie che per direzione artistica sembra ispirarsi alle pellicole Midsommar e The VVitch. Il protagonista Curdin visita una valle situata tra le alpi svizzere per indagare sulla morte del nonno. Ma la zona è infestata da un’entità maligna che tormenta gli abitanti del luogo. Tra presente e flashback legati al passato che fanno luce sui misteri di quel territorio maledetto, il giocatore si muove in una visuale in prima persona in un gioco esplorativo pieno di enigmi e oggetti da raccogliere. Artisticamente eccelso, in un mondo disegnato a mano in bianco e nero, il gioco sembra però soffrire di problemi di ritmo.
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Approfondimento a dir poco spettacolare. Bellissimo! Miliardi di spunti e testi che recupererò.